Spunti su dinamiche di lotta e organizzazione nel conflitto lavoro/capitale, oggi
Edera

Inquadramento
Il problema è piuttosto chiaro e da tempo. Il sindacato, nelle diverse forme e articolazioni che ha assunto negli ultimi decenni, non funziona più nell’invertire i rapporti di forza tra lavoro e capitale su una scala che non sia minima. Anche le ragioni sono note e ampiamente discusse. E sono legate sia all’attacco del capitalista collettivo alle forme di organizzazione del lavoro, che agli enormi limiti soggettivi del ceto politico-sindacale. Da un lato, dunque, c’è l’attacco padronale, la ristrutturazione seguita al ciclo di lotte degli anni Sessanta e Settanta, la lunga fase cosiddetta neoliberista, la frammentazione e frantumazione del lavoro. Dall’altro lato, però, questa crisi “della classe”, dovuta anche a elementi soggettivi di affermazione di differenze e di tendenze all’autonomia, ha arroccato l’intervento sindacale su una difesa di posizione e abbandonato moltissime figure del lavoro emergenti.
Le nuove forme del lavoro (l’operaietà diffusa, servizi e cura, il lavoro digitale e della cultura, professioni autonome e atipiche, il lavoro individualizzato e intermittente, etc.) non sanno nemmeno più cosa sia il sindacato. Alla crisi, inoltre, si è per lo più risposto col rilancio di una rappresentanza sindacale standard, che continua a divaricare lo scarto tra lavoro e sindacato. Quadri sindacali non politicizzati e slegati dalla base sociale, assenza di formazione, il conflitto sostituito con burocrazia e servizi, l’alternarsi di corporativismo e concertazione sul lato confederale e di settarismo e di sindacati che si pensano partiti sul lato “di base”. Ma anche la tendenza alla scomparsa della questione-lavoro dall’agenda politica di un po' tutti i soggetti politici.
L’elenco purtroppo continua: si è affermata una logica della conservazione della struttura sindacale che ha portato a una crisi di credibilità, acuita spesso dalla ratifica di riforme peggiorative. Credibilità persa anche di fronte alla frammentazione estrema delle sigle sindacali, a un linguaggio autoreferenziale e in più – paradosso tutto italiano – di fronte a tassi di sindacalizzazione ancora alti rispetto ad altri contesti, si ha la peggior dinamica salariale dell’area OCSE. A questo va aggiunto che il principale strumento di lotta sindacale, ossia lo sciopero, è ormai uno strumento sempre più spuntato. Anche qui, sia per il continuo attacco che ha subito (da padronato e governi, a livello giuridico), sia perché è stato depotenziato dalle sigle sindacali.
Lo sciopero serve più per ingrandire le fila delle manifestazioni che per confliggere con le controparti, non blocca i posti di lavoro, non si pone il tema della durata oltre gli orari rituali. Tutto cose certo non facili, ci mancherebbe. Ma senza questa prospettiva rischia di rimanere solo una delega inefficace. Dunque, è finita?
Tre linee di riflessione sulla forma sindacale
La risposta è al contempo sì e no. Non è finita nel senso che le forme sindacali continuano e continueranno a riprodursi nel loro ruolo attuale. È probabilmente finita nella forma attuale se ad esse vogliamo attribuire il ruolo storico di organizzazione di conquista di diritti del lavoro e di rottura politica. Ciò che sicuramente non è finito è il conflitto tra lavoro e capitale. Ma se il primo non trova forme organizzative adeguate sfoga in altre direzioni il conflitto (spesso, purtroppo, “internamente” e “verso il basso”).
Non ci interessa qui entrare nel merito di una discussione sulla riformabilità o meno delle attuali strutture sindacali, quanto focalizzarci sulla necessità di una “rottura epistemologica” nella grammatica dell’organizzazione sindacale. E sulla necessità di rilanciare nuove dinamiche della lotta di classe nel XXI secolo. Proviamo a proporre tre linee di riflessione sull’organizzazione: 1. luoghi di lavoro; 2. lavoro e “sociale”; 3. articolazione territoriale.
1.
Alcuni spunti su come poter innovare la presenza e la forza sindacale nei luoghi di lavoro arrivano dall’esperienza alla GKN, dove il tentativo è stato quello di liberarsi di una certa struttura istituzionalizzata, fossilizzata e di mero servizio dotandosi di una serie di condotte e di organizzazioni da affiancare a quella sindacale. Il “Collettivo di fabbrica” in questo senso non si è sostituito alla forma sindacale, ma ha rilanciato forme di partecipazione collettiva che un sindacato ridotto agli iscritti e ai servizi non offre. Strutture fluide partecipative, per ovviare all’inibizione che la macchina sindacale spesso suscita, possono dunque essere una traccia di lavoro, nelle molteplici forme che queste possono assumere.
C’è insomma bisogno di un “ingegno operaio” che aiuti anche ad affrontare il problema della composizione di differenti figure lavorative. Ovviando in altre parole al problema della “settorializzazione”. Da un lato infatti è difficile non “tecnicizzare” il conflitto di fronte a un capitale oggi estremamente complesso e articolato, ma, dall’altro, quando si fa questo passaggio si perde la capacità di una comunicazione ampia. Ci si riduce insomma a una resistenza di posizione, alla vertenza per la vertenza. Queste riflessioni valgono soprattutto per quanto riguarda forme del lavoro più “tradizionali”, e possono essere rivolte alle militanze sindacali strutturate o in formazione.
2.
Una seconda linea di riflessione si basa sulla possibilità di articolare forme di organizzazione lavorativa con forme “sociali”. Dove evidentemente con tale termine si può intendere una pluralità di dimensioni. Giusto per fare alcuni esempi, si può pensare a tentativi già sperimentati in Italia di “sezioni sociali del sindacato” o altre forme “classiche” come i Dopolavoro – ma si può guardare anche a esperienze come i Community center statunitensi, dove molte realtà migranti si organizzano a partire (anche) da bisogni lavorativi. Altri esempi possono essere esperimenti nati in numerosi contesti europei rispetto alla creazione di ciclofficine e luoghi di sosta per i rider, come articolazione intermedia tra lavoro e dimensione urbana. O ancora, forme mutualistiche come i Doposcuola, le palestre popolari o i corsi di lingua o culturali più in generale connessi alle dimensioni lavorative.
Non si tratta evidentemente di separare il sociale dal sindacale, ma al contrario di connettere varie dimensioni che, altrimenti, prese singolarmente, rischiano di produrre solo servizi – spesso in supplenza di tagli al welfare o per colmare “lacune” che le aziende non elargiscono. Di orientare, insomma, questo ecosistema di possibili dimensioni all’orizzonte del conflitto sul salario e sugli spazi e tempi di vita. Su questa seconda linea di riflessione si tratta di immaginare l’attivazione di nuove militanze sul bordo tra sindacalismo e attivismo sociale, figure di cerniera – che non si possono immaginare legate a una riproduzione fatta di distacchi e deleghe sindacali, necessariamente più “fluttuanti” rispetto alla prima dimensione.
3.
Il terzo vettore di ragionamento è legato alla dimensione territoriale che può assumere una nuova “forma sindacale”. Se un ancoraggio di questa riflessione può essere fatto risalire al noto passaggio “dalla fabbrica alla metropoli” e al problema (irrisolto) dell’“operaio sociale”, si tratta nel concreto di immaginare come le lotte sui luoghi di lavoro e le articolazioni sociali sopra definite possano integrarsi e arricchirsi con lotte su quello che possiamo variamente definire “reddito” o “salario indiretto”. In altre parole, come poter costruire trame territoriali che mettano in dialogo, ad esempio, uno sciopero in un magazzino logistico con la lotta per l’abitare, un conflitto sulla salute o sull’ambiente con uno sciopero metalmeccanico.
Ma, anche più in profondità, una dimensione “territoriale” potrebbe essere anche la chiave per sviluppare ambiti organizzativi per tutti quei mondi del lavoro che le forme sindacali non riescono (non possono costitutivamente?) organizzare. Il lavoro in piccole e piccolissime imprese, cooperative, ristorazione, lavoro nel settore turistico, pulizie, forme diffuse di servizi e lavori “creativi”, eventistica, etc. Per organizzarsi con questi settori è sempre più necessario immaginare radicamenti territoriali diffusi, sportelli di ascolto e inchiesta nei quartieri, forme sociali per intercettare questi mondi. È quello che in passato è stato definito come un “sindacalismo metropolitano”, il cui profilo soggettivo di militanza va ricercato in ambienti esterni al sindacalismo, in strutture militanti con un certo grado di “professionalizzazione” in grado di operare come membrane tra inchiesta e conflitto. Oggi potremmo forse nominare questo terzo elemento come la creazione di “piattaforme”, non semplici strutture organizzative ma veri e propri dispositivi di inchiesta, intervento e organizzazione sociale. Alcuni esperimenti in proposito stanno emergendo ad esempio in città come Bologna.

© Philadelphia Inquirer/ Steven M. Falk / Staff Photographer

Forma sciopero
Le tre dimensioni sopra indicate, da immaginare come un possibile ecosistema, vanno chiaramente messe in relazione alle forme di conflitto che possono essere in grado di produrre e alla capacità di ottenere “risultati”, sia di tipo vertenziale che di carattere strategico (da intendersi qui in primo luogo come aumento della potenza di parte).
L’archivio di pratiche che le tre direzioni tracciate possono mobilitare è chiaramente estesissimo (dall’assenteismo ai blocchi, dai picchetti alle occupazioni, etc.), ma quello su cui ci interessa annotare alcune riflessioni è il tema dello sciopero. Intendendolo non come “singolo” sciopero, vertenziale, ma come possibile forma “generale” di convergenza di molteplici vettori nell’ottica di spostare la bilancia dei rapporti di forza sociali.
Una questione certamente non nuova, rispetto alla quale negli ultimi anni si sono moltiplicate le riflessioni – ma è difficile poter riportare specifici esempi modello da riproporre. Sono certamente stati di rilievo gli esperimenti di riqualificazione del terreno dello sciopero operati dai movimenti transfemministi, così come l’idea dei climate strike operati dai movimenti ecologisti. Tuttavia, è possibile affermare che difficilmente si sia andate troppo oltre delle prime prove tecniche, le allusioni, le suggestioni, le evocazioni, il lavoro sugli immaginari. Tutte cose fondamentali, ma evidentemente non sufficienti. La ricerca rimane insomma aperta, e non la si può certo considerare soddisfatta se si guarda a come, nell’ultimo ventennio, sono state tematizzate, qualificate e riempite di pratica dimensioni che hanno qualificato lo sciopero come “metropolitano”, “sociale”, “logistico”. O, infine, la mai riuscita formula della “generalizzazione” dello sciopero.
Una direzione di “ricerca dello sciopero” che può rivelarsi feconda è allora quella di pensare lo sciopero non solo come evento, ma come processo: uno sciopero che si costruisce nel tempo, sedimentando pratiche di solidarietà e organizzazione tra settori diversi, intrecciando campagne di mobilitazione con forme continue di pressione e contropotere territoriale. Una “forma-sciopero” che non si limita a fermare, ma che attiva, accumula forza e potenzia modalità di vivere e lottare nella città e nei luoghi di lavoro. Scioperare non solo per negare la produzione o il consumo, ma per aprire spazi di possibilità, forme di riproduzione sociale con dinamiche autonome e conflittuali a quelle capitalistiche.
È insomma necessario rilanciare la sperimentazione di una dinamica di lotta all’altezza del capitalismo contemporaneo, e dalla consapevolezza che se “sciopero” si traduce “solo” come assenza dal posto di lavoro (produttivo, riproduttivo o precario che sia) e in una manifestazione, nella durata di qualche ora, non si fa male alle controparti. Se comunque le sopra elencate qualificazioni di sciopero non si sono dimostrate sufficienti, è da tale sfondo che si tratta di ripartire. Dall’interrogarsi su come possa svilupparsi un’azione attiva di massa, duratura, in grado di praticare un blocco efficace dei flussi di riproduzione del capitale, agendo sui suoi metabolismi, facendo convergere e moltiplicare le energie della galassia eterogenea dei mondi del lavoro contemporaneo.
Si tratta insomma di immaginare una logistica delle lotte che possa divenire migrante, donna, operaia, rovesciando il paradigma della precarietà e della frammentazione in forza e imprevedibilità, con dimensioni di politicizzazione conflittuale del sociale. Una forma-sciopero che dunque non possa non darsi che come insorgenza metropolitana, sperimentando nuove forme che rendano possibili la partecipazione alle quote crescenti di lavoro che “non possono scioperare” nel quadro attuale.
Ma questo non basta. Non si può infatti oggi eludere il fatto che, se pensiamo lo sciopero come blocco attivo delle attività produttive e della circolazione, come sospensione dei poli di consumo, come interruzione delle infrastrutture, oggi questa contro-circolazione deve necessariamente porsi anche il problema del conflitto sulle e nelle infrastrutture digitali. Vasto programma, certamente. Ma, d’altra parte, nel montante clima di guerra, quale altra forma se non una riqualificazione dello sciopero può essere messa in campo per sabotarne i meccanismi?

© TorinoToday/Ivaan Crivellaro